3 min read 05 Apr 2025

La discussa formula di Trump per il calcolo dei dazi

Di Davide Grammatica

I dazi introdotti dagli Usa continuano a far discutere, e aumentano le critiche sul metodo di calcolo delle tariffe: di che si tratta?

La discussa formula di Trump per il calcolo dei dazi

I calcoli che fanno discutere

Il metodo di calcolo delle tariffe imposte dagli Usa ai vari paesi esteri, in questi giorni, sta facendo particolarmente discutere gli addetti ai lavori. Economisti e investitori si sono scagliati contro il calcolo tariffario “reciproco” descritto dall’Office of the United State Trade Representative. I primi per la presunta mancanza di un metodo scientifico reale nel calcolo delle imposte, i secondi per i danni collaterali che questi dazi stanno causando sui mercati.

Bitcoin ha già avuto modo di scontrarsi con uno scenario economico determinato da nuovi dazi, ma possiamo dire che l’unica cosa “sicura” al momento sarà un aumento della volatilità. Per il resto, ovvero il futuro rialzista o ribassista di BTC, bisognerà attendere le evoluzioni di condizioni economiche più ampie alle risposte commerciali globali.

Detto questo, è chiaro che l’operatività nel mondo crypto non è resa semplice dallo sconvolgimento commerciale in atto, e parte della community, tanto euforica al momento dell’elezione di Trump per le parole al miele del presidente nei confronti dell’industria, sembra ora rivalutarne le azioni.

A maggior ragione se non è chiaro identificare le motivazioni dietro queste decisioni, se non in termini ideologici. Trump ha descritto il tasso tariffario come necessario per bilanciare i deficit commerciali bilaterali. Il calcolo presuppone che i deficit commerciali persistenti siano dovuti a una serie di fattori (tariffari e non), ma riguarda esclusivamente i “beni”, escludendo quindi dal calcolo settori fondamentali per gli Usa quali quello dei servizi.

Ne esce una nuova “tariffa di base” del 10% imposta a qualsiasi importazione negli Stati Uniti, che aumenta poi in base alle nazioni. Tra le più rilevanti ci sono quella imposta alla Cina (34%, da aggiungere a quella del 20% già esistente) quella all’Ue (20%), e quella al Giappone (24%). Ma ce ne sono anche di peggiori, come quella imposta al Vietnam (46%) o allo Sri Lanka (44%).

Una scelta politica dietro alla mossa commerciale?

Sostanzialmente, il dazio imposto andrebbe ad appianare questo deficit commerciale, ma il calcolo dell’entità della tariffa lascia qualche dubbio, a partire dal fatto che, come detto, si descrive il deficit commerciale totale con i vari paesi prendendo in considerazione solo i “beni”.

Le tariffe sono “concettualizzate”, e secondo il documento ufficiale le aliquote sarebbero necessarie in un contesto in cui, nonostante “modelli di commercio internazionale generalmente presumono che il commercio si bilanci nel tempo, gli Stati Uniti registrano deficit persistenti delle partite correnti per cinque decenni”.

Per diversi analisti, questo sarebbe però quantomeno da discutere. Esistono paesi tradizionalmente “importatori” e altri “esportatori”, e questo dipende direttamente dalla politica commerciale. Lo dimostrano proprio gli Usa, che storicamente hanno conquistato il loro ruolo di leader globale non grazie all’esportazione di materie prime ma a quella del know-how, delle tecnologie innovative e dei servizi.

Il calcolo consiste nel prendere deficit commerciale calcolato secondo il metodo già discutibile dell’Office of the United State Trade Representative, dividerlo per il totale delle importazioni americane (ovvero il valore complessivo dei beni che gli Usa acquistano da quel paese), e dimezzare il risultato.

La formula completa sembra però, secondo gli economisti, abilmente calibrata per ottenere risultati predeterminati piuttosto che per riflettere la realtà economica. Si critica quindi l’approccio di Trump, con tariffe che impattano su fenomeni economici complessi, mascherando una scelta politica da calcolo oggettivo.

Evidentemente, i dazi derivano direttamente dall’indirizzo politico di Trump, votato al protezionismo, e non da un deficit commerciale problematico. Il rapporto import export non è “dannoso” da una parte o dall’altra a prescindere, ma descrive semplicemente l’impronta politico/commerciale del paese.

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