Crisi bancaria: resilienza o fragilità?

Di Davide Grammatica

Governo e FED, approcciandosi al tema della crisi bancaria, definiscono il sistema americano resiliente e solido ma, dopo gli scandali SVB, Signature e First Republic, è davvero così?

Crisi bancaria: resilienza o fragilità?

La crisi bancaria in Usa

In America si protrae la crisi bancaria, nonostante le “rassicuranti” parole dei massimi esponenti al governo, come la segretaria Yellen o il presidente della FED Jerome Powell, che definiscono il sistema bancario americano resiliente e solido.

La situazione, dopo gli ormai noti eventi collegati a SVB, Signature e First Republic, sembra essersi tranquillizzata, ma è veramente così? Scendiamo nel dettaglio su alcuni dati, e in particolare osserviamo se esistono altre banche nella stessa situazione delle tre sopracitate.

Per farlo offriamo un report del Social Science Research Network, redatto da alcuni economisti delle più illustri università americane. Essi evidenziano come non solo ci siano numerosi istituti finanziari con simili fragilità rispetto alle banche già fallite, ma che queste ultime non erano neppure quelle con i bilanci peggiori.

Questo approfondimento è stato pubblicato in esclusiva sulla nostra newsletter Whale Weekend del 7 aprile 2023. Iscriviti per non perdere articoli inediti, analisi, news della settimana e tanto altro ancora!

Lo stato dell’arte delle banche americane

“Il recente declino nel controvalore degli asset detenuti dalle banche ha incrementato notevolmente la fragilità del sistema bancario americano rispetto alle bank run di fondi non assicurati”, si legge.

In questo senso, se la Federal Deposit Insurance Corporation, ossia l’organismo che si occupa della tutela dei correntisti al di sotto dei 250k dollari, dovesse incorrere in diverse procedure di salvataggio, anche i fondi a copertura potrebbero non essere sufficienti per garantire il 100% dei depositi. Per arrivare a una situazione di questo tipo, la magnitudine del terremoto finanziario dovrebbe essere davvero elevata; tra poco vedremo quale stratagemma la FED ha messo sul tavolo per far fronte a questa situazione.

Dal report risulta che il 10% delle banche registra perdite potenziali superiori a quelle di SVB al momento del suo fallimento; inoltre, all’interno di questa analisi risultano presenti ulteriori istituti con inferiore capitalizzazione e quindi minore forza per rispondere a crisi di questa entità.

Insomma, la nota SVB non era né la banca più piccola/fragile né quella con le perdite potenziali più elevate. Ma quindi, cosa ha causato il suo prematuro fallimento rispetto alle altre? La quota di “uninsured leverage“.

Per chi non fosse stato in giro per i mercati e social nelle ultime due settimane, spieghiamo in parole semplici cosa è successo a SVB e qual è il problema dei titoli “Held To Maturity” a lunga scadenza in un contesto di economia in contrazione e tassi di interesse in aumento.

La difficoltà riscontrata è dovuta alla terribile gestione del rischio su prodotti finanziari a lunga scadenza, verso i quali non si era strutturata una strategia di copertura. Infatti, gli US Treasuries (bond americani) e gli MBS (security coperte da mutui) in condizioni economiche restrittive tendono a perdere in controvalore, aumentando i tassi di remunerazione e producendo grandi perdite potenziali per le banche che le detengono, le quali vedono il valore momentaneo di quell’obbligazione decrescere in maniera inversamente proporzionale rispetto al tasso di rendimento.

I rischi degli Usa

Il problema diventa irreparabile quando le perdite da potenziali diventano reali, ossia nel momento in cui la banca ha necessità di liquidità per affrontare i propri debiti ed è costretta quindi a vendere i titoli in perdita, non riuscendo a fronteggiare le proprie scadenze finanziarie.

Il tutto può essere ulteriormente esacerbato dalle “bank run”, che sono spesso il motivo principale per cui le banche si vedono costrette a vendere in perdita i propri HTM.

Le “bank run” fanno parte di un semplice meccanismo di teoria dei giochi in cui depositari assicurati e depositari non assicurati decidono, in funzione della solidità della banca, se lasciare i depositi o meno. In caso di fallimento o difficoltà finanziarie della banca, i “secured deposit” (quelli al di sotto della somma 250k$) non partecipano alle perdite, dato che i loro fondi sono assicurati; mentre i fondi che solitamente lasciano prima gli istituti sono quelli al di sopra della cifra 250mila dollari, i quali appena sentono odore di difficoltà finanziarie o perdite potenziali tendono a prelevare, così da non dover essere costretti a partecipare alla ristrutturazione della banca.

A quanto pare, 186 banche corrono elevati rischi di liquidità, il che sottolinea come, se anche solo la metà degli “uninsured deposit” dovessero prelevare i propri fondi, tutti questi istituti sarebbero costretti ad appellarsi al Chapter 11.

Il governo americano è subito intervenuto promuovendo un nuovo “Funding Program” detto BTFP, a cui gli istituti americani possono appoggiarsi in caso di difficoltà finanziarie.

Come funziona il BTFP? Semplice: la banca centrale si occuperà di fornire la liquidità necessaria alle banche in difficoltà in cambio di titoli di stato o garantiti da mutui (probabilmente in futuro la lista di asset eleggibili per questa operazione sarà ampliata). Si tratta di una sorta di prestito a scadenza massima per marzo 2024 (anche qui nel documento esiste una clausola che prevede la possibilità di estendere il termine).

Questo meccanismo ha sicuramente favorito la distensione che abbiamo visto sui mercati nelle ultime settimane; tuttavia, il mercato più liquido del mondo, quello obbligazionario, come ha preso questa decisione e cosa si aspetta nel breve e nel lungo periodo?

Inversione dei rendimenti: cosa ci dice la curva

Il mercato obbligazionario non era così pessimista nei confronti dell’economia dal 1980, quando, ricordiamolo, la FED combatteva con Volcker il ritorno di fiamma dell’inflazione a due cifre, alzando i tassi fino al 20% e mandando l’economia americana in recessione per ben 16 mesi.

Ma come possiamo valutare la predisposizione al rischio dei mercati obbligazionari? Possiamo farlo analizzando le differenze tra scadenze e “payout” dei vari titoli; infatti, la preferenza temporale di lunga scadenza integra al suo interno un maggior rischio temporale rispetto a quelle di breve periodo.

Questo in una condizione normale, dove l’economia procede regolarmente, l’inflazione è controllata, e l’accesso al credito è agevolato e la crescita stabile. Ciò comporta una maggiore prevedibilità nel breve periodo (maggiore sicurezza), mentre sul lungo i rischi potenziali sono più imprevedibili (minore sicurezza), quindi bassi rendimenti nel breve, alti rendimenti nel lungo.

Quando invece l’economia verte in pessime condizioni, i tassi di interesse sono in aumento e l’inflazione non riesce a essere controllata efficacemente, gli investitori obbligazionari scaricano i titoli a breve, non volendo assumersi il rischio di detenere un titolo a breve scadenza in un periodo di difficoltà, puntando invece sui rendimenti a lunga scadenza ipotizzando che nel lungo periodo l’economia sia in grado di recuperare. Questo meccanismo porta a un’inversione della curva (alti rendimenti nel breve, bassi rendimenti nel lungo periodo).

Dal 1900 a oggi, si registrano una serie di 28 inversioni tra i titoli a 2 e 10 anni, e pensate: 22 volte su 28 l’economia è finita in recessione.

Tendenzialmente, arrivati a questo punto vediamo una pausa nell’innalzamento dei tassi, un rallentamento dell’inversione della curva con un forte crollo da parte dell’azionario (= recessione), per poi assistere al ritorno della curva crescente, di tassi di interesse tagliati e di crescita nel comparto azionario.

Vedremo come si muoverà la FED nei prossimi mesi, anche in relazione a come si comporterà l’inflazione e il settore bancario. A oggi il mercato scommette che, così come la FED ha alzato i tassi repentinamente, allo stesso modo sarà costretta a tagliarli per lasciare respiro al già stressato comparto bancario, a favore invece degli indici azionari.

L’inflazione sarà però sufficientemente sotto controllo per poter completare questi step senza timore di vedere la domanda aggregata risalire e spingere di nuovo l’inflazione a livelli insostenibili? Sono queste le domande che più stanno facendo riflettere economisti e investitori.

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