Donald Trump ha manipolato il mercato?
Di Gabriele Brambilla
A distanza di pochi giorni dal rally avvenuto dopo l'annuncio della sospensione dei dazi più pesanti da parte del presidente ci si chiede: Donald Trump ha manipolato il mercato?

Introduzione
Donald Trump ha manipolato il mercato? La vicenda dei dazi e delle ripercussioni sui mercati tiene banco e non si può scartare questa grave infrazione delle leggi. Approfondiamo il tema in questo articolo!
Dazi sì, dazi no, dazi forse
Donald Trump ha fatto dei dazi uno dei suoi cavalli di battaglia nel corso della campagna elettorale, promettendo di lanciare una serie di tariffe nei confronti di molti Paesi. In effetti, così è stato. Da dove nasce questa esigenza?
Ufficialmente, l’obiettivo dell’amministrazione repubblicana è di riportare il lavoro negli Stati Uniti e rendere il Paese nuovamente autonomo su tutti i fronti. Non è infatti un mistero che la produzione di svariati prodotti e materie prime non avviene nei confini nazionali ma in economie dove la manodopera è meno costosa; condizione, tra l’altro, comune anche con tanti altri Stati al mondo.
Se la Cina resta la fabbrica del pianeta, tante altre piazze hanno una considerevole fetta di mercato nella produzione di svariati prodotti: dall’India al Bangladesh, dalla Thailandia al Vietnam. Ma anche Brasile, Messico e via dicendo.
Un tempo, la produzione dei Paesi industrializzati si svolgeva nei propri confini, importando solo le materie prime e i prodotti non disponibili. Questa dinamica si è modificata e ormai da decenni sono gli Stati meno avanzati a produrre per l’Occidente. Alcuni di essi, come la Cina, hanno ottenuto enormi benefici economici, divenendo una delle potenze mondiali.
Dietro la delocalizzazione, ci sono primariamente motivazioni legate ai costi. Per capirci, ecco un esempio di fantasia: produrre una penna negli USA costa 1 dollaro, mentre in Cina solo 20 centesimi; la fabbrica di penne sposterà quasi certamente la produzione, così da poter avere un margine decisamente più ampio. Il problema è che questo modus operandi sottrae lavoro agli operai americani, ma la soluzione è presto servita: nell’Occidente ci si è spostati sui servizi, delegando volentieri la parte legata alla produzione ai Paesi asiatici o sudamericani.
Oggi, pressoché tutto ciò che indossiamo e utilizziamo è stato prodotto all’estero, o comunque una buona parte dei componenti. Con “estero” intendiamo i mercati non occidentali. Facendo un esempio concreto, osservando la mia scrivania individuo un monitor taiwanese, un telefono americano (ma di produzione cinese), una penna francese che chissà dove viene prodotta e un orologio finlandese (rigorosamente prodotto in Cina); questo “gioco” lo può fare chiunque e poco cambierà.
Tornando al discorso principale, in un mondo così legato è difficile troncare i rapporti commerciali. Inoltre, la promessa di Trump, il Make America Great Again, fatica a reggere: i costi e le tempistiche per riportare la produzione di colossi come Apple nei confini americani sono enormi e richiedono ben oltre che un mandato presidenziale. Imporre delle tariffe non fa altro che ricaricare sui consumatori i costi che le aziende americane dovranno sostenere per importare componenti e prodotti a prezzo maggiorato dai Paesi dove li producono. Senza dimenticarci di alcune materie prime che non sono disponibili negli States, o lo sono in misura minima: un esempio è il silicio, dove la Cina detiene l’80% della produzione mondiale.
Insomma, i dazi possono essere un buono strumento, ma in questo caso proprio non ci siamo. Anche l’ottica di utilizzo “così gli americani non compreranno più italiano/francese/tedesco… ma americano” non regge. Il motivo è simile: alcuni prodotti semplicemente negli States non ci sono o hanno caratteristiche differenti rispetto a quelli importati. Un esempio è lo Champagne, chiamato in causa proprio dal presidente: non esiste una sua alternativa a stelle e strisce. Ma se dello Champagne si può fare tranquillamente a meno, che dire di altri prodotti e materie prime indispensabili in tutti i giorni?
Quindi, se i dazi in questo caso sono un problema, a maggior ragione lo diventano quando si ha un presidente che li minaccia, li introduce, poi li sospende, li ripropone, li diminuisce, li alza, li risospende… e via a un loop continuo.
I mercati, le attività e pure i consumatori hanno bisogno di certezze. Se si ha un buon grado di certezza sul futuro, allora si potranno fare programmi (e acquisti) anche importanti. Tuttavia, se ci sono dubbi, in pochi si assumeranno i rischi, mentre la maggior parte delle persone tirerà i remi in barca in attesa che le acque siano più tranquille e prevedibili.
Manipolazione del mercato?
Veniamo alla possibile manipolazione del mercato.
Dopo aver imposto dei dazi pesanti a molti Paesi amici, mercoledì 9 Donald Trump ha annunciato una pausa sulle misure più estreme per i prossimi 90 giorni, così da poter negoziare con i vari Stati. Come potevamo aspettarci, questa notizia ha spinto i mercati verso l’alto, contrattistinti da delle performance davvero ottime.
Ciò che sembra bellissimo ha però dei punti parecchio oscuri.
Innanzitutto, poco dopo l’apertura dei mercati di mercoledì, Trump ha pubblicato un post su Truth Social in cui sosteneva che era un ottimo momento per comprare, firmando con le proprie iniziali (cosa che non fa spesso).
Dopo poche ore (circa quattro), il presidente ha poi postato nuovamente, rendendo nota l’intenzione di mettere in pausa i dazi più pesanti nei confronti di pressoché tutti i Paesi (Cina esclusa). Da notare che proprio in quel momento era in corso un’audizione presso la Camera dei Rappresenti di Jamieson Greer, United States Trade Representative; riguardando i filmati, oltre alla sfuriata del rappresentante democratico Steven Horsford, si intuisce che neppure lui sapesse di questo cambio di programma (troverai il video al termine del paragrafo).
I post di Donald Trump sollevano molti dubbi e sembrano in linea con la manipolazione del mercato, cosa ovviamente vietata per legge. Riflettendo su quanto accaduto, prima l’amministrazione impone dei dazi che affossano la borsa; dopo un po’ di giorni li rimuovono, rinvigorendo i mercati; in tutto ciò, i post del presidente che, di fatto, anticipano non troppo velatamente delle informazioni riservate e capaci di manipolare il mercato.
Attenzione però, perché non abbiamo finito. Un’altra domanda che in molti si pongono è “quanti sapevano di questo cambio di rotta tra le persone vicine a Trump?”; ma soprattutto “quanti hanno operato sui mercati anticipando queste notizie?”. Anche in questo caso si tratterebbe di fatti gravissimi.
La Casa Biance rispedisce al mittente le accuse, sostenendo che si tratta di mosse pianificate, da manuale, parti di una strategia ben definita.
Le reazioni negli Stati Uniti
Non si è fatta attendere la reazione da parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche di opposizione.
Particolarmente coinvolti Adam Schiff, senatore dem della California, ed Elizabeth Warren, del Massachusetts, che hanno chiesto a gran voce l’apertura di un’indagine. Anche Bernie Sanders, senatore del Vermont, si è fatto sentire, così come Alexandria Ocasio-Cortez, giovane deputata che si sta mettendo particolarmente in mostra.
Oltre alle personalità dell’opposizione, le richieste di indagini provengono anche da chi è vicino alla sfera repubblicana. In questo gruppo spicca ad esempio Richard Painter, professore di legge dell’Università del Minnesota, che aveva ricoperto il ruolo di Chief Ethics Lawyer nel corso della presidenza di George W. Bush. Painter, senza mezze parole, ha dichiarato che “se qualcuno nell’amministrazione Bush avesse sollecitato le persone a comprare o vendere azioni, probabilmente sarebbe stato licenziato”.
Sulla situazione c’è ben più di qualche dubbio, ma troviamo già delle “conferme”, come la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene, che ha dichiarato di aver acquistato diverse azioni il 3 e 4 aprile, giorni in cui il mercato era in ribasso. Tra le azioni coinvolte ci sono anche quelle di Amazon e Apple che, grazie all’annuncio di Trump di mercoledì 9, sono risalite rispettivamente del 12 e 15%.
Diciamo che un’inchiesta ci vorrebbe eccome: dati i precedenti, i fatti e le definizioni di manipolazione e insider trading, le basi per approfondire l’operato dell’amministrazione ci sono. Però, sembra difficile che potrà accadere qualcosa. I repubblicani controllano le camere e non danno l’idea di voler avere a che fare in scontri con il presidente. Neppure la SEC, capitanata dal fresco di nomina Paul Atkins, sembra voglia avanzare un qualche tipo di azione.
Questi sono i fatti, per il futuro staremo comunque a guardare, pronti per qualsiasi aggiornamento.