Perché l’Irlanda è il paradiso fiscale delle Big Tech
Di Gabriele Brambilla
Irlanda e Big Tech: come un fisco vantaggioso ha attratto Apple, Google e Meta

L’attrattiva fiscale dell’Irlanda
Nel panorama economico europeo, l’Irlanda si è affermata come una delle mete più ambite dalle multinazionali, soprattutto nel settore tecnologico. Un tempo però non era così, anzi: il Paese era visto come arretrato e non adatto a ospitare delle big tech.
Le cose sono poi cambiate con dei cambiamenti importanti nelle politiche fiscali, tra cui un’aliquota dell’imposta sulle società tra le più basse nei paesi industrializzati. Questo livello di tassazione ha offerto alle grandi aziende l’opportunità di ridurre significativamente la pressione fiscale, pur operando in un contesto stabile e conforme alle normative UE.
Ma la tassazione agevolata non è l’unico elemento che ha attirato giganti come Google, Apple, Meta, Microsoft e Amazon. L’Irlanda ha saputo coltivare anche un ecosistema favorevole agli affari: forza lavoro altamente qualificata, presenza di università competitive, una pubblica amministrazione agile e un ambiente culturale anglofono che facilita i rapporti internazionali. Tutto ciò ha trasformato città come Dublino in veri e propri poli tecnologici, tanto da essere soprannominata la “Silicon Docks” d’Europa.
Il grande cambiamento rispetto al passato porta con sé anche delle problematiche e critiche. Andiamo ad approfondire la questione!
Indice
Ottimizzazione: tra legalità e polemiche
Come abbiamo anticipato, il successo dell’Irlanda non è stato esente da critiche e controversie (e in parte lo è ancora).
Uno degli strumenti più noti utilizzati dalle aziende è stato il cosiddetto “Double Irish”, un meccanismo di pianificazione fiscale che, attraverso un’articolata rete di società con sede in diverse giurisdizioni, permetteva di trasferire profitti verso paradisi fiscali a tassazione quasi nulla, come le Isole Bermuda o le Cayman. Questo sistema, sebbene perfettamente legale nel contesto normativo dell’epoca, sollevò ampie perplessità sul piano etico, spingendo le istituzioni europee a intervenire.
Le critiche si concentravano sul fatto che tali pratiche privavano altri Paesi europei di gettito fiscale potenzialmente legittimo. In risposta alle pressioni dell’OCSE e della Commissione Europea, l’Irlanda smantellò gradualmente i meccanismi più aggressivi, pur cercando di non compromettere la propria attrattività per gli investitori.
Anche dopo la fine del “Double Irish”, il Paese continua a offrire un mix vantaggioso di stabilità normativa, fiscalità competitiva e accesso al mercato unico europeo, mantenendo così un forte appeal tra le multinazionali. Queste ultime, infatti, continuano ad avere una presenza dominante.

Il caso Apple
Tra i casi più emblematici che hanno fatto discutere l’opinione pubblica e le istituzioni, spicca quello di Apple.
Per anni, il colosso tecnologico americano ha utilizzato l’Irlanda come base fiscale per l’intero mercato europeo, registrando profitti colossali a fronte di un’imposizione fiscale praticamente simbolica.
Secondo un’indagine della Commissione Europea, la società di Cupertino riuscì a risparmiare dalle tasse cifre enormi, generando un vantaggio concorrenziale ritenuto illecito.
Dopo lunghe indagini, nel 2016 l’Unione Europea impose ad Apple la restituzione di oltre 13 miliardi di euro, stabilendo che tali vantaggi fiscali costituivano aiuti di Stato illegittimi. Paradossalmente, fu proprio il governo irlandese, beneficiario della cifra, a opporsi alla decisione, temendo che l’esecuzione della sentenza potesse danneggiare la sua reputazione come Stato business-friendly.
La vicenda sollevò un dibattito cruciale sulla giustizia fiscale e sull’equilibrio tra sovranità nazionale e regolamentazione europea. I timori irlandesi non erano però fondati: Apple continua a mantenere la sua base europea nei confini del Paese, seguita da tante altre big tech a stelle e strisce.
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L’equilibrio tra attrattività fiscale e riforme
Oggi l’Irlanda si trova a un bivio.
Da un lato, l’economia continua a rappresentare un porto sicuro per gli investimenti esteri, con oltre il 50% del PIL è legato alle attività delle multinazionali.
Dall’altro lato, il Paese è sottoposto a crescenti pressioni internazionali per aderire a nuove regole fiscali globali. In particolare, la concentrazione è su un’accordo promosso dall’OCSE, che prevede un’aliquota minima globale del 15% per le grandi imprese. La proposta ha sollevato timori nel governo irlandese, che teme un possibile esodo di investitori. Come possiamo immaginare, una fuga di capitali potrebbe avere pesanti ripercussioni: se il 50% proviene dagli investimenti esteri, la fuga di questi ultimi manderebbe in crisi il sistema.
Ciononostante, l’Irlanda ha aderito all’accordo, dimostrando volontà di cooperare con la comunità internazionale pur cercando di mantenere attrattività con altri strumenti quali semplificazione amministrativa, tutela dei diritti di proprietà intellettuale e incentivi alla ricerca e sviluppo.
In un mondo che si muove sempre più verso una fiscalità armonizzata, la Tigre Celtica dovrà forse reinventarsi per continuare a giocare un ruolo centrale nell’economia globale. Per ora, la posizione è comunque al sicuro, in attesa delle nuove sfide in arrivo.