Crypto e security: tra scontri e caos
Di Gabriele Brambilla
Si inasprisce la "battaglia" tra il mondo crypto e la SEC, capitanata da un Gary Gensler sempre più aggressivo. Facciamo il punto della situazione e valutiamone le conseguenze
Le conseguenze delle normative Usa sulle crypto
L’industria crypto continua a viaggiare su un binario precario e fragile, nonostante un 2023 fin qui, tutto sommato, per niente male.
Lo sanno bene, rispetto al resto del mondo, le società americane, da cui però dipendono le sorti del settore a livello globale.
E questo per un’aspetto legato principalmente alle normative del paese, e le ripetute azioni di contrasto alle piattaforme di trading di asset digitali effettuate dalla Securities and Exchange Commission (SEC).
L’agenzia governativa degli Stati Uniti ha il compito di proteggere gli investitori, mantenere ordine e trasparenza nei mercati finanziari e facilitare la formazione di capitali. Regola le società quotate in borsa, i broker, i dealer e gli exchange, e vigila sull’applicazione delle leggi federali di questo settore.
Negli anni, la SEC ha intentato numerose cause contro società di criptovalute. Ma più passa il tempo, più l’agenzia sembra adottare un approccio ostativo nei confronti dell’industria.
La questione è più complicata di quanto potrebbe sembrare, e abbiamo quindi deciso di fare il punto della questione.
Indice
SEC vs crypto
È iniziato tutto alla fine del 2020, con la SEC che ha intentato causa contro società come Ripple Labs e Kik Interactive.
La crypto XRP era stata identificata come “security non registrata” (termine che abbiamo imparato a conoscere soprattutto recentemente.), e Ripple accusata conseguentemente di vendere beni digitali in violazione delle leggi federali.
Nel marzo 2021 è toccato a LBRY, un servizio di distribuzione di contenuti video basato su blockchain. E ancora a giugno 2021 ai fondatori di BitConnect, un presunto schema ponzi che sfruttava al proprio scopo la crypto BCC.
Più recentemente, proprio in relazione all’atteggiamento dell’agenzia, Brian Armstrong di Coinbase, il ceo dell’exchange più importante degli Usa, ha affermato di aver preso in considerazione l’idea di trasferire la sede del CEX fuori dal territorio nazionale, a meno di un cambio di registro nell’approccio degli Usa nelle regolamentazione delle crypto.
Altri casi di contrasto, in ordine di tempo, sono stati la causa intentata contro l’exchange Bittrex, accusato (tra altre cose) di listare anch’esso token “non registrati” come titoli (o “security”), e quindi non conformi alle norme di legge.
Non si può quindi già più parlare di casi isolati. All’inizio del 2023, l’exchange Kraken è stato costretto a interrompere il suo servizio di staking negli Usa, come parte di una sanzione più ampia nei suoi confronti. Un pattern che ha coinvolto anche Gemini Trust e Genesis Capital, con conseguente blocco alla circolazioni di prodotti DeFi a rendita tramite il CEX BlockFi. E ancora alla società Paxos è stato impedito di emettere la stablecoin Binance USD (BUSD), nativa dell’ecosistema BNB.
La SEC si è poi messa in mezzo anche nei più celebri (e tragici) casi di FTX e Terra, i cui ecosistemi sono crollati rispettivamente a novembre e a Maggio 2022.
Tra security e commodity
La questione è tanto semplice quanto difficile da affrontare. La SEC e il presidente Gary Gensler considerano le criptovalute come titoli (“security”) “non registrati”. La registrazione consentirebbe di conformare le società ai termini di legge, ma tutto il processo sembra voler costringere le piattaforme di trading ad adeguarsi a tutto ciò senza che siano fornite condizioni praticabili, o quantomeno una chiara via da seguire.
O almeno, questa è l’opinione dell’industria. Dall’altra parte, per Gensler la questione è chiara: “L’industria delle crypto non vuole ascoltare. Dopotutto, seguire le regole significherebbe tagliare i profitti”.
Il risultato, tuttavia, è che “tutte” le criptovalute siano considerate come “security” da parte della SEC. E alla fine, non è da escludere che il settore debba nel suo insieme aderire al punto di vista dell’agenzia.
Questo, con diverse conseguenze, il cui worst case scenario potrebbe essere quello in cui ai CEX venga dato il permesso di scambiare solo Bitcoin (unico token considerato senza dubbi alcuni come “commodity”).
Ma a questo proposito, come si riconosce una “security”? La differenza tra “commodity” e “security” è indicata da beni che possono essere acquistati e venduti. In alternativa, si parla sempre di “security”, ovvero strumenti finanziari che rappresentano la proprietà di un’entità, come una società o un fondo comune d’investimento.
Le commodity, al contrario, sono beni fisici che hanno un valore intrinseco, come petrolio, oro, argento, grano, zucchero, bestiame e anche Bitcoin, come affermato sia da CFTC e SEC.
Esempi di security sono invece società, obbligazioni, titoli di stato, fondi comuni e altri strumenti finanziari, i quali rispettano requisiti fondamentali a fronte di un investimento: la spesa di una quota di denaro, la partecipazione di altre persone e l’obbiettivo di trarne profitto tramite sforzo condiviso degli investitori stessi.
Esistono alcuni test specifici che possono essere utilizzati per determinare se un investimento è considerato una security ai sensi delle leggi federali Usa.
Ma il principale, e citato più volte dalla SEC, è sicuramente quello del “test di Howey“, che prende il nome da un relativo caso della Corte Suprema degli Usa datato 1946. Il test è citato spesso proprio dal presidente Gensler, mentre nella community crypto si sottolinea spesso come questo sia ormai un metodo obsoleto, nonché inapplicabile alle nuove tecnologie.
Ad ogni modo, il test di Howey si basa su quattro elementi:
- Esiste un investimento di denaro?
- L’investimento è in un’impresa comune?
- Il profitto è derivato da sforzi di altri?
Se la risposta a tutte queste domande è “sì”, allora l’investimento potrebbe essere considerato una security ai sensi della legge.
Tuttavia, la determinazione finale dovrebbe dipendere dalla valutazione di fatti specifici di ciascun caso, e proprio su questa ambiguità si starebbe giocando tutta l’azione normativa della SEC nei confronti delle criptovalute.
Security: quali criptovalute potrebbero essere tali?
Basandoci su quanto appena visto, possiamo capire sulla carta quali criptovalute potrebbero rientrare sotto la definizione di security. Aiutiamoci con il test di Howey che abbiamo conosciuto qui sopra, seguendolo punto per punto.
Partiamo con il primo: l’investimento di denaro.
Per acquistare un determinato quantitativo di una criptovaluta è necessario investire una certa somma, basata sulla nostra strategia. Possiamo quindi sostenere senza alcun dubbio che tutte le coin e token scambiabili passino questo primo test.
Passiamo alla seconda caratteristica, ovvero che l’investimento deve essere in un’impresa comune. Molte criptovalute non necessitano di alcuna terza parte per funzionare e generare profitto. Tuttavia, la lettura delle istituzioni può essere estesa anche alle fondazioni, seppur si tratti di organizzazioni senza obiettivi di profitto. Perciò, sulla carta questo test potrebbe non passare per diverse realtà, ma nella pratica ciò accade.
Diverso il discorso quando di mezzo c’è una piattaforma CeFi, che consente di generare una rendita più o meno costante. Trattandosi di una terza parte, l’investitore effettivamente versa del denaro a una società e crea un collegamento diretto tra il proprio successo e quello dell’azienda stessa.
L’aspettativa del profitto è un altro punto in cui rientrano pressoché tutte le criptovalute. Dopotutto, alla base dell’investimento stesso c’è la volontà di veder crescere il proprio portafoglio. Perciò, da Bitcoin a Ethereum, fino all’ultima delle memecoin, questo test passa facilmente.
In questo caso dobbiamo però escludere le stablecoin, in quanto asset che teoricamente (salvo crolli o scossoni) mantengono il proprio valore ancorato a una valuta fiat. Esse sono quindi essere viste come riserve di valore e non strumenti per conseguire un profitto.
Che dire però di quelle stablecoin che seguono altri asset, come ad esempio l’oro? Una lettura corretta potrebbe essere quella che valuta la natura del sottostante.
Infine, eccoci al punto che riguarda gli sforzi altrui. Anche in questa circostanza, non tutte le crypto passano il test. Dopotutto, è l’investitore a compiere lo sforzo se si limita a detenere l’asset.
Tutto cambia quando si inserisce un soggetto terzo, come può essere una piattaforma che offre lo staking su quella determinata criptovaluta.
Ok, abbiamo capito che c’è grande confusione in materia ma, al tempo stesso, il risultato del test parlerebbe chiaro: è difficile che una “criptovaluta tipo” passi tutti e quattro i punti.
Bitcoin, più volte ritenuta una commodity dallo stesso Gary Gensler, non supera di certo il secondo e il quarto test. Anche Ethereum, se ci pensiamo, non rientra nella definizione di security.
Ora però dobbiamo dimenticare quanto abbiamo appena descritto e guardare le cose dal punto di vista della SEC. Questo perché la Commission interpreta un po’ a modo suo il test e la natura delle varie crypto, arrivando al punto di includerne tantissime sotto la categoria security.
Se per i primi due punti è difficile che ci sia confusione, è proprio negli ultimi due che la lettura della SEC gioca il ruolo chiave. Di fatto, la Commissione ha sostenuto che basta il coinvolgimento di qualcuno, anche terzo, atto a fornire sforzi essenziali che influiscono sul successo dell’impresa, nonché gli investitori attendono di trarre profitto da tali sforzi. Quali sono questi sforzi? Alcuni esempi includono attività come la riduzione dell’offerta della valuta mediante il burn, azione che permette (almeno teoricamente) di accrescerne il valore.
Non solo: la natura stessa della coin può determinarne “per direttissima” l’etichettatura come security. Per esempio, riprendendo Ethereum, il passaggio al Proof-of-Stake è stato visto da Gensler e associati come un salto nella categoria delle security, data la particolare natura del meccanismo di consenso.
Insomma, il caos regna sovrano e la SEC sembra sparare alla cieca, facendo rientrare svariati progetti crypto sotto la propria sfera a piacimento. Il tutto a suon di procedimenti legali.
"La SEC interpreta un po’ a modo suo il test e la natura delle crypto, così includerne tantissime nella categoria security."
Crypto e SEC: le conseguenze
Quali sono le conseguenze di un simile contesto? Facile intuire che si tratta di una situazione difficile e che non giova all’intero settore delle criptovalute.
Innanzitutto, sono proprio le cause legali a preoccupare. Pensiamo a Ripple, con cui la SEC battaglia nelle aule dei tribunali dal 2020.
A prescindere da come la storia andrà a finire, l’azienda che emette la coin XRP ha subito un danno di immagine (ed economico) che difficilmente potrà recuperare in tempi brevi. Seppur “nessuno è colpevole fino a prova contraria”, la negativa copertura mediatica e l’incertezza che deriva dalla causa non fa altro che allontanare gli investitori e gettare del fango sull’immagine aziendale.
Ora tante altre realtà crypto si trovano coinvolte in procedure legali, alcune delle quali potrebbero proseguire per anni proprio come sta accadendo a Ripple. A prescindere dall’effettiva bontà del progetto, avere in corso una causa con una delle più potenti agenzie governative non è mai una buona cosa.
In modo indiretto, tutte le criptovalute incassano le conseguenze di incertezza, processi e battaglie con le istituzioni.
Che si tratti di Bitcoin, Ethereum o Cosmos, ciascun progetto è fatto di persone e necessita un seguito sempre più numeroso e solido per crescere e raggiungere obiettivi ambiziosi. Mentre chi già investe nel mondo crypto potrebbe ormai essere abituato, l’incertezza scoraggia molti nuovi potenziali partecipanti a questo settore. Perciò, la confusione che stiamo vivendo e i continui attacchi della SEC hanno conseguenze profonde.
Non dimentichiamoci poi di ciò che potrebbe accadere a uno specifico progetto se effettivamente dovesse perdere la causa e finire sotto le “grinfie” della SEC. Già immaginiamo le vendite di massa che potrebbero distruggerne le basi prima ancora di iniziare a uniformarsi alle disposizioni normative.
Il contesto sarebbe un po’ più morbido nel caso le regolamentazioni dovessero stabilire quali caratteristiche dovrebbe avere una criptovaluta per essere classificata come security. In questa casistica, i progetti avrebbero certamente modo di adeguarsi o modificarsi per tempo, evitando il peggio. Tuttavia, potrebbero comunque insorgere problemi.
La SEC non si rende quindi conto di quanto le sue recenti azioni abbiano conseguenze già concrete su un’industria innovativa e giovane come quella crypto. Oppure, la Commission lo sa bene e mantiene questo comportamento proprio per attaccare un settore che potrebbe crescere parecchio negli anni a venire, sfuggendo alla sua autorità.
"L'incertezza scoraggia i potenziali nuovi partecipanti al settore e sfiducia quelli già presenti"
Conclusioni su criptovalute e SEC
Lo scenario è tutto fuorché delineato e facile da analizzare. Ciò che è certo è il peggioramento del contesto che sta portando sempre più allo scontro tra le due fazioni: SEC da un lato, mondo crypto dall’altro. In questo senso, realtà come l’exchange Coinbase, che ha dato appuntamento alla SEC in tribunale, vengono viste come paladine dell’intero settore.
Come abbiamo detto poco sopra, a prescindere dai risultati le conseguenze sono al momento negative. L’incertezza sul futuro non fa altro che allontanare i potenziali nuovi investitori e generare malumori in coloro che già partecipano.
Tra i vari elementi indispensabili, un mercato (di qualsiasi tipo) necessita di uno scenario tranquillo e favorevole per lo sviluppo, proprio come un seme appena germogliato. Proseguendo con questa metafora, l’industria crypto è un boschetto di alberi ancora giovani e sottili, molto vulnerabili in caso di forte tempesta.
Chiudiamo però con una nota positiva: abbiamo già vissuto diversi eventi catastrofici e il settore è stato in grado di reggere, mostrando una resilienza fuori dal comune. Confidiamo quindi che anche “l’uragano SEC” possa passare senza lasciare particolare segno.